PREMESSA
Cosa intendiamo per “retaggio”? Dall’Oxford Laguages:
Retaggio: Eredità; fig. ( più com. ), il patrimonio spirituale che un popolo o una stirpe deriva dal passato.
ANALISI
Onestamente, vi sembra una definizione ancora attuale o un po’ “obsoleta”? Riteniamo, cioè, che attribuire questa definizione alla preghiera sia valida e quest’ultima possa considerarsi ancora un patrimonio, una ricchezza ereditata dai nostri avi, da chi ci ha preceduto e ha creduto in questa “pratica”?
Talvolta le parole, nel passare del tempo, assumono significati nuovi, diversi e alcune, invece, ne perdono quello originale e a fronte di neologismi, certune diventano desuete o vengono definite “arcaiche”, fuori dal nostro tempo, in una parola, superate.
Bene. La lingua del resto non è qualcosa di statico ma piuttosto in continua evoluzione e “contaminazione”, cioè modifica e assorbe, all’interno del proprio lessico, parole nuove o espressioni derivanti o dal passato (vedi la lingua latina e/o greca, come per es.: lupus in fabula) o da lingue e culture straniere che diventano parte del nostro patrimonio linguistico come: garage, box, dejavu, meeting, ecc.
Patrimonio… sostantivo utilizzato nella definizione di “retaggio” al quale viene aggiunto l’aggettivo “spirituale”. Ma allora a cosa si può associare questa definizione? Come si sposa, quindi, l’accostamento del termine “retaggio”, col suo significato intrinseco – così come definito dall’Oxford Laguages – se attribuito alla parola “preghiera”? Infatti verrebbe spontaneo domandarselo, anche perché la parola “patrimonio” ci richiama a qualcosa di economico, di venale, a onor del vero, ben poco di spirituale… E allora?
Ho ricercato sul dizionario Treccani online una definizione di “preghiera” e tra le differenti accezioni riporto la seguente, al vero abbastanza articolata sebbene riferita solo al significato religioso:
“In senso religioso: a. Le parole, pronunciate o pensate, di cui è costituito il testo che si recita nel pregare, per rivolgere lodi alla divinità, o implorarne l’aiuto, il perdono, l’intercessione e sim.: dire, recitare la p. (o le p.); le p. del mattino, della sera; le p. dei defunti (o per i defunti). In partic., nella liturgia cattolica, p. eucaristica, quella che viene recitata dal sacerdote durante la parte centrale della messa (tra l’Offertorio e il Padrenostro); p. universale (o p. dei fedeli), quella costituita da una breve monizione con la quale il sacerdote invita i fedeli a pregare, e da una serie di intenzioni proferite da un diacono, da un cantore o da un laico (l’assemblea esprime la sua preghiera sia con le invocazioni comuni, sia con la preghiera silenziosa); p. domenicale, il Padrenostro (v. domenicale2); p. liturgica, ogni preghiera destinata al servizio cultuale di una comunità religiosa. b. Il fatto di pregare, come atto di devozione o di culto.”
Posso essere sincero? Questa definizione, seppur ampia, non mi soddisfa e sapete perché? Perché a mio parere svuota la preghiera di due aspetti: il primo, che la riduce ad una serie di invocazioni, come delle formule “magiche” tese ad ottenere (ci sta anche questo, per carità!) un qualcosa che ci necessita; il secondo è che non ne riconosce la ricchezza – spirituale – il patrimonio culturale e della tradizione che sono insiti in sé stessa e, se proprio la vogliamo dire tutta, dimentica che la preghiera è un dialogo, non un monologo del credente che si rivolge al sacro (in genere e frequentemente soprattutto per ottenere un beneficio)!

APPROFONDIMENTO
Con molta umiltà, penso che quando un uomo si pone in preghiera, assumendo la postura fisica che lo Spirito Santo gli suggerisce in misura maggiore, ora seduto, in piedi, o in ginocchio oppure addirittura sdraiato faccia a terra, inizi in lui quel primo momento di ricerca di un contatto con la persona a cui si sta rivolgendo, richiedendone l’attenzione, la disponibilità ad ascoltarlo e poi gli rivolge ciò che il suo cuore gli detta.
Avete mai visto qualcuno che parli da solo (a parte quelle persone che oggi vediamo parlare, apparentemente da sole per strada – una volta li avrebbero chiamati pazzi – ma che in realtà dialogano al cellulare con le famose “cuffiette” nelle orecchie…) rivolgendo domande a nessuno?
Quindi, in prima istanza, cerchiamo il contatto visivo, sensoriale con la persona alla quale ci stiamo rivolgendo e normalmente non instauriamo un monologo per tutta la durata della conversazione – che non sarebbe più tale e risulterebbe oltremodo logorroico – ma alterniamo domande a risposte ora dell’uno, ora dell’altro.

Nella preghiera avviene la stessa cosa, solo che il nostro interlocutore non è visibilmente presente, fatta salva la rappresentazione della divinità alla quale ci stiamo rivolgendo sottoforma di statue, sculture, dipinti, immaginette, ecc. (tralascio le “apparizioni” e le “rivelazioni private”, pur esistite ed esistenti…).
Ma non è un’entità astratta, sorda, come gli idoli che nell’antichità realizzavano i pagani e non solo (il vitello d’oro, di biblica memoria è un esempio di idolatria di parte del popolo ebraico che si era corrotto – Esodo 32) bensì una realtà spirituale, invisibile, ma presente, in cui, per fede, crediamo; entità a cui ci rivolgiamo certi del suo ascolto, non dell’esaudimento delle nostre richieste, e con la quale ci poniamo in dialogo, quindi bidirezionalmente.
Abbiamo citato più volte il termine “patrimonio“, ma dove sarebbe l’elemento “patrimoniale”? Uhm, permettetemi una deroga. Brutta parola quest’ultima dal significato politico – di una certa area del nostro parlamento connotabile a sinistra dell’emiciclo, quale sua prerogativa – equivalente al dover esborsare soldi se detentori di una proprietà (la casa, quale esempio classico per antonomasia).
Quindi dobbiamo pagare anche per pregare? Anche qui c’è la fregatura? Non sarà il solito scherzo da preti? Perdonate il mio tono un po’ irriverente, ma credo che il Signore ami l’ironia e penso anche che qui non ci sia inganno o trucco: la preghiera ha un valore enorme – in questo senso quindi l’accezione “patrimonio”- ed è un bene, un mezzo che ci viene dato, non richiesto!
Quanti di noi, infatti, ricchi, poveri, sani, malati, giovani, vecchi, liberi, carcerati, uomini, donne, ecc. utilizzano questo mezzo per rivolgersi nella preghiera, appunto, alla divinità che sentono più vicini a loro? Normalmente chiediamo ai Santi, agli Angeli e/o alla Madonna la loro intercessione affinché il Padre eterno ci conceda la grazia di cui necessitiamo, per noi, un nostro figlio, un parente/conoscente, per una guarigione, un posto di lavoro, per ottenere un appartamento (che sta diventando un autentico miracolo riuscire ad acquistare o trovare in affitto a prezzi normali, specie nelle grandi città).
Banalmente, attribuendo un valore economico agli esempi su riportati, vediamo che accostare il sostantivo “patrimonio” alla parola “preghiera” non è poi così fuori luogo, ma la vera ricchezza, che è insita nell’orazione stessa, è quel valore di pace interiore, di gioia, di serenità e di forza che in modo del tutto misterioso avviene in noi.
Dalla comunione spirituale col Signore otteniamo un arricchimento inestimabile, ma non secondo la scala dei valori umani basati sul materialismo, bensì a livello di interiorità, dello star bene dentro, in quell’energia che ci viene fornita e che ci permette di affrontare la vita avendo in noi acquisito una marcia in più: quella della fede e della speranza di non essere mai lasciati soli nell’affrontare le sfide quotidiane per poterle superare ed ottenenre anche quei beni materiali che ci servono per vivere! E vi sembra cosa di poco valore?
Nella mia vita lavorativa spesso mi son rivolto al Signore con la preghiera ottenendo risultati insperati. Se qualcuno desiderasse leggere la mia autobiografia professionale, questo è il libro:
RIFLESSIONE
La domanda vera è, però, un’altra: oggi come oggi, quanti praticano l’“esercizio” della preghiera?
Perché dico “esercizio”? Perché occorre un minimo di allenamento alla preghiera: costanza e perseveranza non possono essere dimenticate come caratteristiche fondamentali da chi prega in quanto la mancanza di abitudine difficilmente riesce a porre chi si pone di fronte a Dio nella condizione di riuscire a rimanere concentrato e non distratto dai mille pensieri che, in quel momento, come cavallette, assalgono chi vorrebbe mettersi in dialogo con il Padre eterno.
In questa società siamo così continuamente distratti dalle mille attrazioni centrifughe che difficilmente riusciamo a rientrare in noi stessi, a fare silenzio nel nostro intimo per riuscire ad ascoltare il Signore che ci parla, perché pregare significa porsi in ascolto, non riempire di parole quel silenzio come se ci facesse paura tacere…
La preghiera è quindi solo un retaggio del passato, una forma obsoleta di rivolgersi a qualcuno o a qualcosa di presunto sacro o ha ancora una sua valenza, un suo patrimonio, un potenziale da poter esprimere? Credo, in estrema sintesi, che il valore intrinseco della preghiera è inestimabile non perché incommensurabile e quindi non misurabile con una unità di misura “materiale”, ma perché ha, per chi ancora la pratica, la capacità di metterlo in contatto spirituale col Creatore, ma non uno qualsiasi, ma il proprio!

E vi sembra una cosa da poco? O forse vi aspettavate una considerazione più “fantastica”, “eccezionale”, al di fuori della realtà umana? E forse non lo è di per sé stessa? Mettersi in colloquio con Dio Padre, il tuo Creatore, non di un altro essere umano (anche…), ma in quel momento di raccoglimento, solo “tuo”, esclusivamente tuo, in un rapporto dialogico totalizzante che non ammette intrusioni o interferenze…

È disarmante osservare le nostre chiese vuote, salvo le feste comandate in misura ridotta e non sempre piene, fatto salve le S. Messe di Pasqua e Natale… Ma è altrettanto esaltante quando si vede non la solita “nonnina” che biascica un S. Rosario, forse addormentandosi tra un mistero e l’altro, ma un giovane che in ginocchio si rivolge al Signore per chiedergli una grazia, magari quella di superare un esame universitario, o prega perché l’intervento chirurgico di un proprio congiunto possa andare a buon fine, o per un posto di lavoro post-laurea che non arriva…
Cose già accennate più sopra, ma che sempre riempiono il cuore di chi ha modo di osservare situazioni di questa natura e cioè, ripeto, di giovani che in ginocchio si rivolgono al Creatore, il loro, in quel momento. Allora pensiamo che non tutto è perduto, che ancora c’è una speranza, la Speranza con la “S” maiuscola, la seconda virtù teologale, alla quale appellarci per riuscire a superare le sfide di questo mondo, una realtà sempre più complessa e incognita che ci supera e spaventa.
CONCLUSIONE
Non so se considerare, quindi, superata la pratica della preghiera ma, probabilmente, trasformata e modificata dai tempi che viviamo ma altrettanto autentica nell’intimità di ognuno di noi che nel segreto del proprio cuore si rivolge a Colui che tutto può, che ci ama e ci chiede solo di rivolgerci a Lui con Fede, la prima delle virtù teologali.
Come sempre l’invito a commentare, esprimendo la vostra opinione qualunque essa sia, concorde o meno con quanto qui redatto, è comunque ben accetta, avvalendovi dello spazio qui sotto, riservato a tale scopo. Sarò lieto rispondervi personalmente.
Con affetto, vostro Antonio.
P.S.: per chi fosse interessato ad approfondire il discorso sulla preghiera posso suggerire il libro da me redatto: “Diario Spirituale” dove al Cap. 1 – La Preghiera – della Sezione Religiosa, si parla e sviluppa l’argomento. Questo il testo:

















