La lettura del libro “Anche i morti hanno bisogno dei vivi”, per chi ha avuto la possibilità e il tempo di farlo, pone in evidenza il tema del rapporto tra l’aldiquà e l’aldilà, pur andando oltre la “veridicità” del racconto in sé, espediente per richiamare l’attenzione su questo aspetto ineludibile della nostra esistenza, o meglio, del suo terminare. In particolar modo ciò che potremmo fare per “chi tra noi non è più” …
Il mistero della “vita oltre la vita” da sempre interroga l’uomo sul suo destino post-mortem.
Che fine faremo?
Ci ridurremo semplicemente in polvere, come ci ricorda il versetto di Genesi e cioè: «Ricordati uomo, che polvere sei e polvere ritornerai» (Gn 3,19) o, come dicevano i latini: «Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris», oppure ci rincarneremo in qualche altra persona, animale o cosa?
Difficile rispondere, anzi impossibile se non per fede nelle proprie convinzioni religiose e in funzione delle stesse, tra l’altro, differenti tra loro.
Di certo la domanda rimane e continua a martellarci soprattutto all’avvicinarsi del momento fatidico, non sempre coincidente con una veneranda età, perché tutti i giorni muoiono i bambini, i giovani, gli adulti e gli anziani che in questa sequenza, speriamo, questi ultimi rappresentino il numero maggiore in quanto significherebbe che la maggior parte degli esseri umani ha raggiunto quella fase ultima e più avanzata dell’esperienza terrena.
Perché, è curioso, tutti vogliamo vivere a lungo ma nessuno, però, vorrebbe “invecchiare” e, per morire, c’è sempre tempo…!
La nostra umana natura respinge l’idea della morte e mentre nei film, ormai, sono migliaia le scene in cui gli eventi relativi a omicidi, stragi, morti violente, quando non truculente, ecc. si susseguono incalzanti soprattutto nei film horror, thriller, di azione, e così via… quando si parla nella realtà quotidiana, quella della vita reale, appunto, si ha quasi timore a pronunciare la parola “morte”.
Provate a farci caso: quando c’è un funerale, si parla del “caro estinto”, di colui che è “trapassato” o che è “passato a miglior vita” e, se proprio dobbiamo spingerci oltre, arriviamo ad utilizzare, al massimo, il termine “defunto”. Non è forse così? Pronunciare la parola “morte/morto”, ci spaventa, un po’ come, in epoca meno recente, dire di una persona che si era ammalata di “cancro”: era quasi un tabù.
Di solito si diceva che aveva “un brutto male” o “un male incurabile”, “quello…” ed altri mille termini allusivi, raggiungendo il massimo con il termine “tumore maligno”.
Purtroppo, qualsiasi appellativo vogliamo riservare al distacco ultimo da questa terra, il risultato non cambia. Ciò che può cambiare è il destino al quale, sempre per convinzioni di fede, potremmo venir destinati in funzione di come abbiamo condotto la nostra esistenza prima di morire…
E qui si apre il vero problema: mi riferisco, evidentemente, a chi crede in una “vita oltre la vita” – unica espressione che mi sento di usare serenamente al posto della parola “morte” – che per il cristiano cattolico si traduce in tre possibilità, dal “basso” verso l’“alto”: Inferno, Purgatorio e Paradiso.
È chiaro che qui possiamo fare solo delle ipotesi sia sui criteri di “aggiudicazione” del posto (inteso come stato d’essere, non certo come luogo fisico) che di come si vivrà in quelle differenti realtà con una nota temporale: in eterno… (faccio salvo chi crede nella rincarnazione).
Circa i criteri di salvezza o condanna – e per quest’ultima intendo la pena dell’Inferno – la diatriba è sempre aperta tra la questione “meritocratica” e quella della “misericordia” divina.
Mi spiego meglio.
Sin da bambini siamo stati cresciuti ed educati al concetto: “fai bene, avrai bene; fai male avrai male” che fa rima con la mentalità retribuzionista di avere per ritorno un premio in funzione del merito acquisito. La vita, poi, ci dimostra che, purtroppo, le cose non vadano sempre così, anzi… In ambito morale ci si interroga se il nostro agire bene nei confronti del proprio simile non sia di per sé motivo di “auto” salvezza.
In altri termini se ci comportiamo caritatevolmente verso il nostro prossimo, assolviamo al comandamento nuovo del Signore che così recita, nella sua completezza:
“Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso”.
Questo dovrebbe garantirci il Paradiso.
Ma è più facile a dirsi che a farsi… o no? La fragilità della nostra natura ci porta spesso a lasciar posto più all’egoismo che alla umana solidarietà o sbaglio?
La serie di peccati che la mancanza di carità verso il nostro prossimo – dai genitori al coniuge, dai nostri parenti agli amici più stretti, ecc. – commettiamo ogni giorno ci fa toccare con mano come ai buoni propositi si sostituiscano le cattive opere.
Ed è qui che, sempre per chi crede nella religione cristiano-cattolica, subentra la consapevolezza dei nostri limiti, della nostra fallacità e il conseguente appello alla misericordia di Dio per la remissione dei nostri peccati, per ottenere la salvezza dell’anima al termine dell’esperienza terrena, sempre troppo breve, purtroppo! Lasciamo al Padre eterno il giudizio, quel giudizio che scaturisce da un amore per la Sua creatura che non è minimamente paragonabile a quello che abbiamo noi per il nostro simile.
Ma, per tornare al tema che emerge dal racconto, il pensiero che si sviluppa è cosa possiamo fare noi per chi ha oltrepassato la soglia e non si trovi all’Inferno – stato dal quale non c’è più speranza di redenzione – né in Paradiso – nello stato di grazia, nella gioia senza fine – ma in Purgatorio, cioè in quello stato intermedio che, unica consolazione, terminerà dopo un determinato periodo che il Signore Dio avrà stabilito per ogni anima “purgante” (oh, non si tratta di un medicinale…).
Questo arco temporale sarà stabilito in funzione al tempo che il Creatore avrà definito affinché quell’anima si possa purificare dalle proprie colpe, colpe delle quali non si è pentito e non ha chiesto perdono in vita.
Si dice che con la morte tutto finisca, almeno per chi se ne va, e che ormai nulla più si possa fare per lui, materialmente parlando. Spiritualmente, se quell’anima si dovesse trovare in Purgatorio, molto invece si può fare, spiritualmente, per far sì che il suo transito espiativo possa essere il più breve possibile.
Cosa? Pregare!
E l’iscrizione alle SS. Messe – che è la preghiera perfetta, la memoria e la rievocazione della morte e Risurrezione di Cristo per la nostra salvezza – è l’opera di misericordia più efficace che possiamo donargli da esseri viventi.
È un chiedere al Signore misericordia per le fragilità, per i peccati da lui commessi in vita, richiesta di perdono che l’anima defunta non può più chiedere per sé stessa.
Capite l’importanza di questa preghiera, detta di “suffragio”?
Così da Wikipedia:
“Messa in suffragio, nella teologia cattolica, è una Celebrazione Eucaristica in cui vi è l’applicazione di preghiere, indulgenze, opere buone alle anime del Purgatorio, per ottenere da Dio la remissione della pena temporale loro inflitta in sconto dei peccati commessi durante la vita terrena”.
Penso non ci siano da aggiungere altre spiegazioni ma solo una raccomandazione: per chi crede a quanto la madre Chiesa ci ricorda e professa, non dimentichiamoci di “chi tra noi non è più” nella speranza che quando capiterà anche a noi, il più tardi possibile, ovviamente, ci possa essere sempre qualcuno che preghi per noi.
Magari non ne avremo bisogno, ma “…Del doman non v’è certezza” come recita il verso della “Canzone di Bacco” (composta da Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, in occasione del carnevale del 1490) che, parafrasando, traduco: “…Del futur giudizio non c’è certezza” …
Meditate gente… meditate!
Con affetto, Antonio