Antonio Palmiero

La Festa della Esaltazione della Santa Croce

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Potrà sembrare strano, in particolare per chi non frequenta la S. Messa, ma esiste anche la ricorrenza della Esaltazione della Santa Croce. Detta e letta così, ammetto, può sembrare qualcosa da “fuori di testa”… 

Mi spiego subito.

Una festività dedicata all’Esaltazione della Santa Croce

Come è possibile fare una “festa” (S. Messa domenicale) in ricordo di un simbolo (la Croce) che evoca e rievoca situazioni di dolore e sofferenza, sia in termini fisici (la Crocifissione), sia in termini psicologici (non diciamo forse che stiamo, in senso metaforico, sopportando o vivendo una “croce”?)? 

Nella migliore delle ipotesi si dovrebbe dire che festeggiamo il “dramma” della Croce, non la sua “Esaltazione”…. O no?

Beh, ovviamente e volutamente sono stato provocatorio perché a tutta questa sequenza di parole ho volutamente, ripeto, tolto l’aggettivo “Santa” che fa la differenza…

La crocifissione

Non stiamo, infatti, parlando della crocifissione di persone comuni, magari anche di delinquenti che secondo la legge romana venivano così puniti (vi ricordate il film “ Spartacus “, interpretato da Kirk Douglas?), ma di un uomo, o meglio, il Figlio dell’Uomo, colui il quale con quella morte e successiva Risurrezione ha redento il mondo!

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Ma procediamo in modo ordinato, prendendo spunto da quella bella pagina tratta dal libro dei Numeri (21, 4-9)

“Poi gli Israeliti partirono dal monte Cor, dirigendosi verso il Mar Rosso per aggirare il paese di Edom. Ma il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatti uscire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero»”. 

(Nelle precedenti situazioni si erano lamentati della mancanza dell’acqua e Mosè la fece scaturire dalla roccia; poi della mancanza di pane e il Signore concesse la manna; poi del cibo e il Signore fece trovare sotto la rugiada le quaglie…: lamentazioni su lamentazioni, soprattutto viziate non da una esigenza oggettiva, ma dalla recriminazione, dal rinfacciare, parlare contro e, in una parola, dalla mancanza di fede nel Signore).

“Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti velenosi i quali mordevano la gente e un gran numero d’Israeliti morì.  Allora il popolo venne a Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; prega il Signore che allontani da noi questi serpenti»”.

(La debolezza dell’arroganza umana si manifesta immediata di fronte alla sciagura che pone l’uomo di fronte alle proprie colpe alle proprie scelte sbagliate, agli esiti del peccato: la morte).

“Mosè pregò per il popolo.  Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà resterà in vita»”. 

(Ed ecco l’antidoto: il serpente di bronzo issato sul palo, anticipazione di chi (Gesù) dovrà essere innalzato sulla croce: il Figlio dell’Uomo).

“Mosè allora fece un serpente di rame e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di rame, restava in vita”.

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Qui dentro c’è tutta la storia dell’uomo: dalla sua disubbidienza alla sua punizione, dalla morte di Cristo al riscatto dalla morte eterna. Lo sguardo di coloro che son stati “morsi” dal peccato, ai quali è stato iniettato il veleno mortale, possono salvarsi solo se guardano al Cristo, al mistero di Cristo, il Re crocifisso che ha riscattato il mondo dal “veleno” diabolico.  

Ancora una volta non sono le “buone opere” a salvare dal peccato, ma la fede in Dio che può salvare l’uomo dalle sue ripetute cadute.

Ciò non toglie che mi sia sempre chiesto, ad una prima lettura, del perché fu detto dal Signore a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta” cioè di issare un serpente di bronzo sul legno verso cui rivolgere lo sguardo per ottenere la “guarigione” di chi fosse stato morso dai rettili.

Mi son domandato, ripeto: perché utilizzare il serpente, quel simbolo del maligno?

Una risposta al mio quesito, che riporto tratta da un commento ad un articolo di Mons. Gianfranco Ravasi pubblicato su Famiglia Cristiana.it da parte di un lettore –  Giovanni Teresi, che cito non volendomi appropriare del pensiero altrui, ma condividerlo, così si esprime: 

“…Allora non era il serpente di bronzo che salvava, ma chi era capace di oltrepassare le apparenze del segno e guardare con fede alla misericordia e alla potenza di Dio…”

A me è piaciuta questa spiegazione, spero anche a voi che state leggendo.


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Sin troppo evidente la simbologia di sempre.

L’uomo con il suo peccato frutto della sua disobbedienza a Dio; i serpenti che evocano il serpente demoniaco del Giardino terrestre; la morte, quale effetto dell’accettazione del “frutto” velenoso da lui offerto ad Adamo ed Eva; il serpente di bronzo issato sul palo, anticipazione della crocifissione di Gesù Cristo… 

La seconda lettura di San Paolo apostolo ai Filippesi (2,6-11) così recita: “…Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.” “Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome…”.

Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltatorecita Lc 14,1.7 che fa un po’ rima col proverbio: “Chi si loda si imbroda”. 

Esaltazione della Santa Croce e salvezza dell’uomo

Quello che desidero evidenziare è che l’umiltà dell’uomo sarà la sua salvezza.

Riconoscersi peccatori, riconoscersi bisognosi della misericordia di Dio, riconoscersi deboli e fragili di fronte alla tentazione demoniaca è la regola aurea per ricevere la salvezza dal Signore.

Ritenersi superbamente in grado di poter fare a meno della Sua grazia salvifica è l’errore di orgoglio – il peggior e primo peccato di natura demoniaca (Lucifero diventato Satana per orgoglio, per voler essere come Dio, viene scacciato dal Paradiso e il suo capo schiacciato dal piede dell’Arcangelo Michele che significa: “Chi è come Dio”, appunto…) – in cui l’uomo tentato e provocato dal Maligno cade e ricade regolarmente… Il Papa emerito, Benedetto XVI, nell’Omelia di Nicosia, il 5/6/2010, disse:

<<La croce non è semplicemente un simbolo privato di devozione… parla di speranza, parla di amore, parla della vittoria della non violenza sull’oppressione, parla di Dio che innalza gli umili, dà forza ai deboli, fa superare le divisioni e vincere l’odio con l’amore>>.

Quando pecchiamo, dobbiamo avere la forza, pur con tutte le difficoltà che il demonio ci pone innanzi – Satana è il “separatore”, colui che si infrappone tra noi e Dio, colui che vorrebbe separarci dal Suo amore misericordioso, colui che vorrebbe farci sentire persi, imperdonabili, farci perdere fede e speranza nell’amore salvifico di Dio…!) – di guardare il Crocifisso e chiedergli perdono, immediatamente, non per timore del Suo castigo (Dio non castiga, ma redime!), ma perché ci rendiamo conto della nostra umana fragilità – e con umiltà  ci rivolgiamo a Lui per farci perdonare (“settanta volte sette”, disse agli apostoli…, cioè sempre, di fronte a un cuore contrito del suo peccato) così come ci ricorda la liturgia:

 “<<Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui >>. Guardando alla croce, possiamo riconoscere che, dinanzi a Gesù, ogni ginocchio può piegarsi non per la paura del giudizio, ma per la meraviglia dell’amore”.

E con questo auspicio di autentica fiducia nella misericordia infinita di Dio di fronte alle nostre ripetute bassezze, con cuore gonfio di ammirazione e gioia di avere un Padre, fratello in Gesù Cristo, di siffatta grandezza, mi congedo da voi, miei pazienti lettori.

Con affetto, Antonio

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