Antonio Palmiero

I nostri Cari Defunti: ma esiste una Vita oltre la Vita?

I nostri Cari Defunti: ma esiste una Vita oltre la Vita?_AntonioPalmiero

INTRODUZIONE

Il tema relativo alla “Vita oltre la Vita” ha sempre interrogato l’uomo sin dalla propria nascita, appena raggiunta l’età della ragione. Inizialmente, da piccoli, domandando dove fosse andato il nonno o la nonna deceduti; da adulti, domandandoci dove andremo noi una volta deceduti…

È una domanda di natura esistenziale che l’essere umano si è sempre posto sin dalle origini. Pensiamo, ad esempio, agli antichi Egizi che mettevano nelle tombe dei propri morti cibo e quant’altro: utensili, suppellettili, oggetti personali, ecc., che accompagnassero il morto nel viaggio verso l’aldilà affinché potessero essergli utili. Infatti credevano in una esistenza dopo la morte come una prosecuzione di quella vissuta sulla terra da vivi ed anche nella risurrezione.

Inoltre era loro convinzione che nell’uomo ci fossero due componenti: una era il “ba”, cioè uno “spirito eterno” e l’altra il “ka” cioè “l’energia vitale” ovverosia la “forza vitale di ogni individuo”, potremmo definirla come la sua personalità/temperamento.

È curioso leggere come fosse loro usanza e credenza considerare la morte come un lungo viaggio prima dell’approdo nell’aldilà, e che credevano che l’anima del defunto venisse accompagnata da Anubisi – un loro dio con la testa di sciacallo, nera – che aveva il compito di proteggerla da esseri mostruosi e dai possibili pericoli sino a quando giungeva al cospetto di Osiride che, da Wikipedia, viene così descritto: “Il martirio di Osiride gli avrebbe guadagnato la signoria sul mondo dei morti, di cui sarebbe divenuto sovrano e giudice supremo, garante delle leggi di Maat – era perciò venerato come dio della morte e dell’oltretomba”.

Traggo dal bellissimo articolo di Barbara Faenza del 18 settembre 2021, pubblicato on line su “Storica” del National Geographic, la descrizione di chi fosse Maat:

I concetti etici di verità, rettitudine morale, giustizia ed equilibrio nell’antico Egitto erano espressi in un unico termine: maat. Questo concetto così vasto e importante era personificato nel corpo di una splendida dea avvolta in un abito aderente che sfoggiava sul capo una piuma di struzzo: la dea Maat.

Maat riassume in sé tutte le offerte che si possono fare alle divinità, poiché gli dei si “nutrono” di Maat. Maat è il cibo degli dei.

La verità è leggera come una piuma

La dea dell’ordine però non è importante solo a livello cosmico, quindi nell’infinitamente grande, ma anche a livello del singolo, quindi nell’infinitamente piccolo. Bisognava vivere con Maat nel cuore, essere giusti e retti per poter andare nell’aldilà del dio Osiride. Gli egizi sono stati infatti tra i primi popoli a credere che, dopo la morte, le azioni compiute in vita si pongano davanti al defunto come una montagna impossibile da cancellare. Per capire se il morto avesse vissuto con Maat nel cuore, la sua anima, dopo la morte, sarebbe stata condotta nella sala della “Doppia Verità” al cospetto del dio Osiride, giudice supremo, e di quarantadue demoni della giuria. 

Una bilancia a due piatti, una sorta di macchina della verità, era protagonista assoluta della scena.

L’anima impaurita doveva a questo punto pronunciare una confessione negativa, cioè una serie di peccati che non aveva commesso durante la sua vita mortale. Per capire se stava dicendo la verità, mentre l’anima parlava, il cuore del defunto veniva posto su di un piatto della bilancia mentre sull’altro si collocava la piuma della dea Maat o una statuetta della dea. Questa era una pesatura simbolica: il cuore rappresentava i sentimenti del morto, cioè la sua bontà o la sua cattiveria; la piuma era simbolo di verità. Si pesavano, insomma, due concetti astratti: verità e sentimenti. Se il cuore pesava come la piuma il defunto, un “giusto di voce”, poteva andare nell’aldilà. Se invece, malauguratamente, il cuore fosse stato più pesante, sarebbe entrata in scena una dea mostruosa chiamata “la grande divoratrice”, il cui il corpo era formato da un insieme di tre animali diversi e tutti pericolosi: leone, ippopotamo e coccodrillo. Questo mostro avrebbe divorato il cuore – e quindi l’anima del morto – condannandolo ad andare in un luogo di eterna dannazione che, per certi aspetti, ricorda da vicino l’inferno dantesco. Tutto per colpa di una bilancia, verrebbe da pensare. Ma questo simbolo di equità e giustizia è vivo ancora oggi grazie al cristianesimo: basti infatti pensare alla rappresentazione di san Michele Arcangelo che pesa le anime dei morti… proprio su una bilancia!

E, ad integrazione, da un articolo redatto da don Marcello Stanzione pubblicato il 2/07/2019 sul sito di Aleteia, che vi invito a visitare, descrive così il dipinto del Perugino:

LA BILANCIA E UN’ANIMA. LA RAFFIGURAZIONE DI SAN MICHELE CHE POCHI CONOSCONO

E viene rappresentato in questo modo anche su un dipinto francese del XV secolo al museo Calvet, in Avignone, ecc.  In quest’ultima opera, se la bilancia rimane un attributo puramente convenzionale, non è lo stesso per la spada. L’arcangelo la brandisce con la mano destra per colpirne il suo nemico atterrato, mentre con la mano sinistra egli tiene l’orifiamma di Cristo, unito ad una croce. Il pittore è riuscito ad inserire nondimeno la bilancia, legandola all’attaccatura dell’orifiamma”(“orifiamma”, dal dizionario online della Treccani: “Bandiera di colore rosso cosparsa di stelle o di fiamme d’oro e terminante in due o tre punte bordate da una frangia di seta verde e oro…”).

Mi limito a questa tradizione degli antichi egiziani, qui riportata in sintesi, ma che evidenzia quale fosse il loro culto e rispetto dei morti e nella cui tradizione rilevo anche delle analogie con la nostra religione cristiano-cattolica, parte delle quali già emergono esplicitamente al termine dell’articolo citato. Quali?

COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI E ANALOGIE CON LA RELIGIONE CATTOLICA

Beh, innanzitutto, già il fatto di credere ad una vita oltre la morte (o “oltre la vita”, come amo definire la morte stessa…) e quindi in una prosecuzione della vita stessa “senza soluzione di continuità” – sebbene sotto altra forma – nonché alla risurrezione, accomuna le due culture: anche noi crediamo che il decesso di una persona non ponga fine alla sua realtà, ma che continui spiritualmente, sino alla fine dei tempi, in un’altra realtà.

Poi il concetto che dopo la morte si sarà giudicati per le proprie opere compiute in vita così come accadrà a noi esseri umani di fronte a Dio Giudice appena l’anima del defunto si staccherà dal corpo per essere giudicata (i demoni sono solo lì in attesa della eventuale condanna eterna…). E cosa veniva giudicato secondo gli egiziani? Il cuore, la sede dei sentimenti. E su cosa? Sulla sua bontà o cattiveria. E forse che noi non saremo giudicati su questo, cioè sulla carità – intesa come amore – o mancanza della stessa nei confronti del nostro prossimo?

La bilancia e la piuma, intesa come “unità di misura” della verità e dei sentimenti: se il cuore pesava come la piuma, quindi aveva quella “leggerezza” che la verità e i buoni sentimenti possono conferire al cuore, allora era salvo e poteva entrare in quello che per noi è il Paradiso, viceversa, sarebbe andato in un “luogo di eterna dannazione”, l’equivalente del nostro Inferno con l’aggiunta, da parte della nostra fede, che il giorno in cui risorgeremo dai sepolcri, il corpo si ricongiungerà all’anima. Noi cattolici abbiamo una speranza in più: il Purgatorio, laddove la nostra condotta di vita non abbia sempre privilegiato la carità verso il prossimo, vinti dal nostro egoismo.

Pensiamo anche all’accostamento iconografico tra la bilancia tenuta in mano dall’Arcangelo San Michele, mentre ha la spada sguainata e schiaccia Satana, e quella che avrebbe giudicato l’anima del defunto egiziano. Del resto la bilancia è anche il simbolo della giustizia umana (benché non sempre così giusta…).

Permettetemi una riflessione: il “peso” del cuore. Guardate come erano avanti anche sotto questo profilo religioso e filosofico. Forse che noi non diciamo di avere un “cuore pesante” quando siamo gravati da preoccupazioni o, peggio, dal rimorso di coscienza o dal senso di colpa per le azioni cattive/peccati commessi? E, viceversa, non diciamo di avere un “cuore leggero” quando ci sentiamo felici, in grazia di Dio?

Ma gli accostamenti non terminano qui. Osserviamo come la concezione dell’uomo costituito da spirito “ba” e da una forza vitale presente in ogni individuo, quindi corporeamente, “ka” sia una anticipazione di quella definizione che vede l’essere umano costituito da anima e corpo.

Un altro punto in comune è la similitudine del “viaggio” verso la destinazione finale che l’anima, lo spirito del defunto doveva percorrere “protetto” da una divinità (Anubisi) a difesa dagli, potremmo dire, “spiriti maligni” – l’equivalente dei nostri diavoli… – che avrebbero potuto infrapporsi tra lui e il giudice Osiride – per noi, Dio Giudice. Forse che noi, per il tramite del sacerdote, non diamo il sacramento dell’estrema unzione e accompagniamo il nostro caro con le preghiere di suffragio a “difesa” della sua anima?

Da Wikipedia:

Il sarcofago egizio era la cassa destinata a custodire il corpo imbalsamato del defunto e il suo Ka. Il suo nome egizio era nebankh ossia “Possessore di vita”, ed era da considerarsi l’elemento più importante di una sepoltura e dimora del defunto per l’eternità.

E noi non seppelliamo i nostri cari in una tomba (o un loculo) dopo averli deposti in una bara?

RIFLESSIONI

Non voglio andare oltre circa i paralleli con l’antico Egitto e le loro tradizioni in merito al culto dei defunti o ad altre popolazioni e culture del passato, ma di certo il tema sulla morte è indiscutibilmente un argomento che ci interroga e, paradossalmente, ci affascina! Oh, sia chiaro, non sono un amante dell’occulto o un negromante, né disprezzo la vita, anzi!

Ma da quando emettiamo il primo vagito, la “clessidra” di vetro che ci viene consegnata, più o meno grande, più o meno capiente, alla nostra nascita, incomincia inesorabilmente ed inarrestabilmente a far scorrere i granellini di sabbia in essa contenuta sin al suo naturale esaurimento, prestabilito da Chi ce l’ha affidata, salvo premature interruzioni, laddove dovesse “caderci” dalle mani e rompersi…

Del resto non si dice, metaforicamente, che la vita è nelle nostre mani? Il punto è di farne buon uso, non sprecare nemmeno uno di quei granellini di sabbia, troppo preziosi per essere sciupati, anche perché quella clessidra, purtroppo, al suo esaurirsi, non può essere capovolta nuovamente…

La morte pone fine ad ogni dolore e per alcuni è, forse, l’unica consolazione nel momento della dipartita dei propri cari dove il termine dell’esistenza coincide col cessare di quella malattia che tanta sofferenza fisica e morale ha portato e caratterizzato il suo fine vita. La “sorella” morte, di francescana memoria, sembrerebbe voler dare ragione a chi, incontro a quella “congiunta”, va col sorriso nella certezza di fede di colei che non solo lo libera dal male psico-fisico che lo affligge, ma come introduttrice all’incontro col Padre per l’ingresso nella pace paradisiaca, pace e gioia senza fine.

E la paura per l’incognita che lo aspetta del giudizio finale al quale tutti, credenti o non credenti, saremo sottoposti, nostro, loro malgrado? Nessuno di noi ha “l’anteprima” di quella realtà metafisica, ma la fiducia nella misericordia di Dio deve accompagnarci nell’ultimo viaggio, soprattutto per chi, pur con le proprie fragilità, ha sempre creduto nella Sua esistenza e capacità di perdono per i nostri peccati.

Non a caso le nostre preghiere di suffragio per i defunti (e non solo nel giorno dell’anno, il 2 novembre, loro dedicato come commemorazione) sono quanto mai necessarie per la salvezza delle loro anime che, imperfette, dovessero trovarsi nell’“anticamera” del Paradiso – il Purgatorio –  in “sala di attesa”, una attesa più o meno lunga per la purificazione dei loro peccati.

Capisco che per chi sia di fede non cristiano-cattolica, che magari crede nella reincarnazione o non crede – ateo – o non gli interessa – agnostico – il problema non si pone né per le anime dei propri defunti, né per loro stessi, almeno sino all’ultimo momento dove l’“uomo con la falce” verrà a far loro visita.

Ma, nel rispetto di ogni differente convinzione, penso che il ricordo dei nostri cari, non più tra noi materialmente, lo rimangano nella nostra mente e nel nostro cuore sino all’ultimo, prima di ricongiungerci con loro e, non è raro che molte persone, un attimo prima di spirare, sussurrino quale loro ultima parola: “mamma”!

Ma allora, esiste o non esiste una vita oltre la vita? Ognuno dia la propria risposta. Personalmente ne sono convinto perché sarebbe, per me, un non senso vivere questa esistenza con tutto ciò che la caratterizza, nel bene o nel male, e ridursi ad un mucchietto di polvere: lascio, però, ad ognuno di voi dare una risposta e speriamo sia quella esatta…

Il mio auspicio, tra cento anni, è di poterci ricongiungere con i nostri affetti, siano essi genitori, figli, parenti, amici e quanti, su questa terra, abbiamo amato.

Oh, a proposito, per chi rimane, una preghiera: pregate per “chi tra noi non è più”… appunto.

Con affetto, vostro Antonio.

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