Antonio Palmiero

L’Amore: in quanti modi lo possiamo Declinare/Coniugare?

15APR2024 - L'Amore in quanti modi lo possiamo DeclinareConiugare_AntonioPalmiero

PREMESSA

Questo articolo è tratto dal Cap. 3 del mio libro “Diario Spirituale” – pubblicato su Amazon – e qui integrato ed adattato con ulteriori e personali riflessioni. Chi, quindi, avesse già letto il mio testo, non me ne voglia.

NTRODUZIONE

Il tema dell’Amore con le sue mille sfaccettature

Il verbo “declinare” ha diversi significati, quali ad esempio:

  1. come verbo intransitivo: volgersi verso il basso, tramontare.
  2. figurativamente: volgere al termine, diminuire, scemare, abbassarsi gradatamente, perdere di vitalità, di efficienza; decadere.

Ma anche: respingere (per indicare una cortese ma ferma dichiarazione di rifiuto o di rinuncia). Come termine grammaticale: enumerare le forme del paradigma di un sostantivo, di un aggettivo, di un pronome, classico della lingua latina che non usa le preposizioni, ma i vari suffissi tipici delle varie declinazioni usate nel linguaggio. Differentemente, il termine “coniugare” è riferito ai verbi…

Penso possa essere sufficiente fermarci qui, anche perché la nostra bella quanto complessa lingua italiana non finisce mai di stupirci circa i tanti significati che si possono attribuire ad una stessa parola… e come questi mutino il senso della frase o vengano modificati dal contesto della frase stessa nella quale vengono impiegati.

Sembra un gioco di parole, appunto. Prendo però spunto da uno solo dei differenti significati per “declinarlo” nel tema AMORE. Utilizzerò la parola “declinare” nell’accezione di “respingere”. Perché? Legato all’amore si vorrebbero mille altre espressioni, dalle più romantiche alle più commoventi… Perché, quindi, abbinare tale significato, ovvero utilizzare questo accostamento? Forse chi scrive sta vivendo un momento di abbandono, di respingimento? Beh, chi nella propria vita, oltre a tutti gli stati d’animo positivi vissuti nel proprio cuore, non ha sofferto anche quelli drammatici del rifiuto?

DECLINARE UN AMORE

Ebbene, per un attimo, pensiamo a cosa significhi per un essere umano innamorato vedersi, sentirsi, rifiutato dalla persona da lui amata ma non ricambiato nella stessa misura: il dramma dell’esistenza, del mondo che ti crolla addosso… Pensiamo, poi, se questo sentimento è stato in un primo tempo accolto e condiviso in egual misura e poi tradito, rifiutato, concluso, sempre unilateralmente (altrimenti non ci sarebbe dolore, ma reciproca condivisione di una scelta…). Quanti drammi si sono consumati, nel tempo e in tutto il mondo, anche con omicidi-suicidi dei quali non passa giorno che i mass media non ci forniscano più o meno dettagliati riscontri?

Declinare un invito… una proposta… una offerta, cioè rifiutare.

Allora mi sorge un dubbio e mi scatta una domanda: ma perché siamo fatti così? Come possiamo trarre da un sentimento così alto, così profondo, “l’amore”, quello che viene definito il vero motore del mondo, l’unico che può far trasalire il nostro cuore dalla meschinità del vivere quotidiano, o meglio, delle condizioni in cui viviamo, per colpa o causa di forza maggiore, tanta sofferenza?

Essere rifiutati ci associa alla radice di questo verbo: “rifiut-are” che sostantivizzato fa rima con “rifiuto”, “scarto”… Credo che nessuno ami essere assimilato a ciò. E se noi, esseri umani, imperfetti, riusciamo a provare tanto dolore per le conseguenze psicologiche che da questo declinare riusciamo a trarre, direi spesso a subire, chi è Perfetto per eccellenza, come dovrebbe rimanerci?

Sì, perdonatemi questo giro di parole, questo escamotage letterario per arrivare ad una considerazione scaturitami dal Vangelo di Marco (7,31-37) il famoso brano del sordo-muto guarito dal Signore. Cosa c’entra col “declinare”? Apparentemente nulla, anche perché il malato non ha declinato l’invito del Signore a seguirlo: “Lo prese in disparte, lontano dalla folla…” cioè lo invitò a seguirlo, ad allontanarsi dalla folla e dalla loro bramosia di “magie”…

Qui chi ha declinato è stato Gesù, cioè ha respinto la tentazione del protagonismo, dell’“effetto speciale”, dell’“applauso”… ma ha chiesto la partecipazione attiva al malato di essere seguito (e non solo fisicamente, ma anche figurativamente, nel senso di “affidarsi”, di “abbandonarsi” fiduciosamente a Lui).

Quante volte noi ci affidiamo a Lui e confidiamo in Lui? Termini simili tra loro ma con valenze semantiche differenti: l’“affidarsi” è un porre sé stessi nelle mani di un altro, il “confidare” è aver la “fede” la “speranza” che costui possa aiutarti a risolvere il problema per il quale ti sei affidato a lui…

Tutti i gesti che seguono hanno la loro valenza messianica, cioè di colui che salva: “guardò verso il cielo”, “mise le sue dita negli orecchi”, “con la saliva gli toccò la lingua”, “emise un sospiro”, “gli disse: <<Effatà>>, cioè <<Apriti>> (Mc7,34)… Il Signore ancora una volta chiede a chi deve essere guarito di fidarsi di Lui, di essere seguito, ascoltato (prima gli mise le dita negli orecchi – “dita” che nel linguaggio figurato della Bibbia indicano la “Parola” di Dio – poi gli sciolse il nodo della lingua: come a dire, <<prima ascolta, poi parla>>) ma se noi lo “declinassimo”, quale potere avrebbe su di noi se non un’imposizione dall’alto, una manifestazione di “violenza” verso la nostra libertà?

E il nostro non ascoltarlo in tanti episodi della nostra misera esistenza, a quanti rifiuti corrisponde? Quante volte il Signore ci parla, ma noi decliniamo la Sua proposta? Quante volte lo “scartiamo” a favore di più allettanti promesse (demoniache: leggi “tentazioni”) che poi ci deludono e lasciano l’amaro in bocca? Quante volte lo rifiutiamo così come faremmo con una pietanza sgradita (quante volte rifiutiamo l’Eucaristia, pane di vita, per altri “pani”: ricchezza, avarizia, egoismo, gloria, lussuria, bramosia di potere…)?

E potremmo continuare all’infinito, ma rischieremmo di cadere, ad un certo punto del nostro progredire, nella retorica… Non è di questo che abbiamo bisogno, di piangerci addosso, ammettere la nostra sconfortante incapacità e quindi l’abbandonarci non a Lui, ma allo sconforto fine a sé stesso, negando al Signore la possibilità di risollevarci, in altre parole, di salvarci.

MISERICORDIA E CONIUGAZIONE DELL’AMORE

Ed è qui che mi viene in aiuto una riflessione tratta dal foglietto della celebrazione festiva che riporto perché le attribuisco una valenza “redentrice”: “La misericordia è la traduzione del precetto dell’amore. La dobbiamo necessariamente esercitare per dimostrare di essere “figli”. Ne abbiamo anche bisogno per non essere condannati. Dovrebbe perfino traboccare”. Allora ecco che dovremmo imparare a passare dalla “declinazione” dell’amore, sin qui intesa come “rifiuto”, alla “coniugazione”, termine che si attribuisce ai “verbi”, parte del discorso che associa un’azione, un agire.

 “…è la traduzione del precetto dell’amore”: cioè sganciarci dalla lettura dei Suoi Comandamenti intesi come “precetti”, obblighi, la cui inosservanza comporterà ineluttabilmente la condanna, quanto piuttosto una lettura beatifica (“le Beatitudini”) dove la loro applicazione, non “osservanza passiva”, è l’azione che trasforma i precetti in amore. E l’unica coniugazione che Gesù ci ha insegnato, che ci ha lasciato da fare come “compito” è quella del verbo “amare”: <<Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso>> (Mt22, 37-39).

RIFLESSIONE

Mi verrebbe da dire, rivolgendomi al Padre eterno: <<Grazie Signore per la Tua infinita Misericordia, perdonami per le tante “declinazioni” che ho operato nella mia vita verso di Te, sordo e muto e anche cieco in tante occasioni, ed insegnami a coniugare la Tua volontà!>>.

Non siamo forse “declinatori seriali” e poco “coniugatori” del sentimento di amore verso gli uomini e verso Dio? Quanto dolore infliggiamo, col nostro comportamento, a chi ci ama e che non vede ricambiato questo sentimento, anche nel mancato affetto delle relazioni amicali che sviliscono i rapporti umani interpersonali e, di conseguenza, pure quelli con la collettività a cui si appartiene e dove le nostre azioni vengono manifestate?

CONCLUSIONE

Cerchiamo di riflettere, prima di agire, su quali conseguenze il nostro modo di essere e di porgerci può generare nella società e non pensiamo che le nostre azioni siano indenni da riflessi nella realtà in cui viviamo perché rivolte ad una sola persona in quanto, come un effetto domino, il nostro agire o non agire implicano delle reazioni da parte di chi riceve e o non riceve il nostro affetto.

Si pensi solo a chi ha subito una violenza fisica o morale, con quale stato d’animo potrà, a sua volta, rivolgersi ad un proprio simile: paura o spirito di rivalsa potrebbero perpetuare e moltiplicare gli effetti nefasti della nostra mancanza d’amore verso il prossimo.

Riflettiamo, dunque, prima di operare affinché, quando non ci saremo più, chi ci ricorderà possa farlo per come abbiamo saputo coniugare quell’amore e non per quanto lo abbiamo declinato.

Con affetto, appunto, Vostro Antonio.

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