Consentitemi di iniziare questo articolo con una battuta:
“Se la ricchezza non dà la felicità, immaginiamoci la povertà!”
Per far la rima ho utilizzato il termine “povertà”, non “miseria”…
Ma perché c’è differenza?
Ebbene, come mia abitudine, riporto dal dizionario Oxford Languages le due definizioni, spesso usate, impropriamente, come sinonimi nel comune parlare:
“miseria” (/mi·ṣè·ria/) sostantivo femminile
- L’indigenza, soprattutto in quanto capace di pregiudicare seriamente la dignità morale o sociale di un individuo o di una comunità: “ridursi”
- Stato di avvilimento, di desolazione, d’infelicità: “de’ Numi è dono Serbar nelle miserie altero nome“
“povertà” (/po·ver·tà/) sostantivo femminile
- Condizione di inferiorità economica (e per lo più anche sociale): “vivere”
Soglia di povertà (o linea di povertà o livello di povertà), limite convenzionale del reddito (o dei consumi), solitamente pari alla metà della media, al disotto del quale il percettore è classificato come povero.
PARTICOLARMENTE: La rinuncia ai beni terreni, in quanto virtù evangelica volontariamente accettata con voto solenne dai professi degli ordini religiosi.
ESTENS.: Limitata o insufficiente disponibilità o funzionalità: “la p. d’acqua di una regione”
Dopo questa prima differenziazione semantica dei due termini (tralasciando quella “PARTICOLARMENTE” e la “ESTENS.”) mi sembra di poter iniziare ad esercitare un distinguo concettuale partendo dalle due parole, un sostantivo e un verbo, virgolettate e sottolineate, abbinandole tra loro e cioè:
“miseria” – “ridursi” e “povertà” – “vivere”.
IL PRIMO BINOMIO: “miseria” – “ridursi”
Vorrei premettere una considerazione: non si veda in questa analisi una condanna dell’una e/o dell’altra condizione umana nella quale ci si potrebbe venire a trovare senza colpa (come ad es. nel caso di figli nati in una delle due situazioni o, per una malaugurata sorte, a causa di una malattia invalidante o altro di drammatico quale un evento climatico catastrofico: alluvioni, incendi, terremoti, ecc. o addirittura un conflitto bellico…) quanto piuttosto una riflessione sui comportamenti che potrebbero indurre in una delle due realtà. Detto questo, procediamo col fine di rispondere, in ultimo, al tema di questo Blog.
Quale il senso di questo abbinamento? Semplicemente che in uno stato di indigenza ci si può “ridurre”, vale a dire che una persona potrebbe essere stata ricca, anche molto ricca, ma lo stile di vita assunto e condotto è stato talmente spregiudicato da compromettere il suo status economico e di benessere.
Gente che ha ereditato una fortuna dai propri genitori – costruita con una vita di sacrifici ed abilità imprenditoriale – vanificata da sperperi legati al gioco d’azzardo, alla bella vita senza regole e men che meno valori morali; capitali bruciati con avventure lussuriose e molto costose; denaro speso senza criterio alla ricerca di edonistici traguardi; ricerca di paradisi artificiali per provare emozioni forti – leggi “droghe” – per una vita senza problemi… ecc.

Problemi che quel genere di comportamenti hanno poi generato riducendo sul lastrico il ricco giovanotto. Di conseguenza il sostantivo “miseria” sostenuto dal verbo “ridursi” fa ben capire che non ci sia nulla di decoroso in una condizione di questo tipo.
Il dizionario definisce il termine come “L’indigenza, soprattutto in quanto capace di pregiudicare seriamente la dignità morale o sociale di un individuo o di una comunità”, indigenza spesso collegata ad un modus vivendi che non esula da una colpevolezza comportamentale, spesso dissoluta, improvvida nella gestione dei propri beni materiali, mobili ed immobili, denaro in primis, tale da “…pregiudicare seriamente la dignità morale o sociale di un individuo”, perché, poi, non riuscendo più a condurre una vita normale, ma volendo mantenere quegli standard così onerosi, economicamente parlando, si arriva a compromessi morali che intaccano la dignità personale (vedi per es. un prostituirsi – al femminile, ma anche al maschile – o entrare in giri di malaffare quali droga, furti, rapine, ecc.).

Il dizionario completa poi con una ulteriore accezione del termine: “Stato di avvilimento, di desolazione, d’infelicità” che potrebbe essere conseguente a quello stile di vita adottato che fa passare il soggetto “dalle stelle alle stalle”, riducendolo anche e soprattutto moralmente in quello stato depressivo, di desolazione e, in una parola, di avvilente infelicità.
Ma se era ricco, non sarebbe dovuto essere esattamente all’opposto? Cioè non sarebbe dovuto essere felice?
Risponderò più avanti, come detto, a questa lecita e quasi scontata domanda, oggetto di questo articolo benché credo che al termine dell’analisi che sto proponendo, la risposta ve la darete da soli, ma non precorriamo i tempi.
Certamente è anche lecito addurre che un rovescio finanziario o un investimento sbagliato possono avere un effetto analogo, ma moralmente siamo agli antipodi rispetto ad un atteggiamento da “figliol prodigo” del primo tipo descritto. E, nella stragrande maggioranza dei casi, chi si riducesse in miseria per un errore gestionale dei propri capitali, o per disastri naturali come su citato, il più delle volte avrà anche la forza morale di risollevarsi, caratteristica difficilmente riscontrabile nel depauperatore folle incline all’esclusivo sollazzo e non certo incline al sacrificio: denaro non sudato, evapora facilmente…
IL SECONDO BINOMIO: “povertà” – “vivere”
In questo caso, invece, il verbo che sostiene il sostantivo è “vivere”, cioè non è un passare da uno stato di particolare benessere ad uno inferiore, di miseria, come visto, ma è una condizione dell’essere, di uno stare, di un perdurare in quella realtà economica e sociale.
D’accordo, ma alla fine sempre di sofferenza si parla… Certo non è che chi percepisca la metà dello stipendio rispetto alla normalità, viva nella gioia sfrenata del bengodi, ma partendo dalla situazione disagiata in cui si trova cerca, in prima istanza, di non spendere in modo disinvolto o improvvido quel poco denaro di cui dispone e organizza la sua vita in ragione delle proprie entrate, seppur limitate e spesso insufficienti, ma nel decoro della sua condizione, magari chiedendo aiuto alle strutture di sostegno e solidarietà, a volte solo per un certo periodo di tempo.

Ma la vera povertà è decorosa, dignitosamente nascosta, con quella dignità che viene svenduta dal “miserabile” per mantenere i propri vizi… Difficilmente sul volto del povero potrai notare la disperazione, magari la preoccupazione di come riuscire a mettere assieme il pranzo con la cena, per sé e per la sua famiglia, quella sì, o di come arrivare a fine mese onorando gli impegni economici (l’affitto, le “bollette”, ecc.), ma mai quel senso di depressione di infelicità che può portare anche ad un gesto di autolesionismo (vedi i suicidi) molto più probabile nel “ricco” diventato non “povero”, ma andato in “miseria” non solo nelle tasche, ma ancor più nell’animo! Poi un momento, e più di uno, di sconforto può capitare anche a chi non è povero…
La cronaca ci riporta di “fortunati” soggetti vincitori di fortune al “Totocalcio” o al “Superenalotto” o a giochi d’azzardo – vedi roulette, scommesse, ecc. – poi ridottisi (vedete come si usa questa espressione anche nel parlare comune?) a disperati pieni di debiti per aver fatto il passo più lungo della inaspettata vincita: i suicidi di ex-miliardari – in lire – o milionari – in euro – non sono rari e presenti in ogni epoca.
Caspita, avevano tanto sognato di diventare ricchi e poi si sono anche suicidati? Sì, ma quelli erano stupidi…
Certo, furbi proprio non lo sono stati, ma facciamo attenzione, laddove dovesse capitarci detta fortuna, colti da un delirio di onnipotenza, di non strafare e fare la stessa fine.
QUINDI? DUNQUE…
Quando mi è venuto in mente di scrivere questo articolo, ho pensato ai tanti giovani che incantati dal facile guadagno di qualche “pop star” dello spettacolo o dei nuovi “mestieri” – leggi per es. Influencer improvvisati del momento, ecc. – vedono in tentativi alternativi alla logica dello “studiare per poi trovare un lavoro e farsi una posizione”, quelli del “tutto e subito, costi quel che costi”, ma possibilmente che non costi troppo – meglio per niente – in fatica e sacrifici.
E se quel “lavoro” redditizio fosse poco onesto? Beh, se ne può parlare…
Scusate la provocazione, ma la ricerca della felicità non passa attraverso il successo effimero, anche se remuneratissimo, di quegli artisti, calciatori, cantanti… star per qualche stagione che poi scompaiono nell’oblio, ma che illudono milioni di giovani che aspirano a quel risultato di facile arricchimento.
Gianni Morandi cantava “Uno su mille ce la farà…” appunto 1 su 1000…. Ma a volte anche solo uno su un milione e più…
L’inganno che come modello viene portato ai nostri giovani è che il denaro, soprattutto se fatto senza rinunzie, sforzi, ecc. è il fine e non il mezzo per vivere meglio. Oggi, ascoltando certi ragionamenti che di “ragionato” hanno ben poco, emerge che il massimo ambito è di avere, a 20 anni, qualche milione di euro a disposizione per godersi la vita… magari ammazzando i genitori ricchi per ereditare tutto e subito (vedi i fratelli Maso…). Una nota: certi comportamenti, come quello appena accennato, escludono dalla successione/eredità chi si macchia di un tale reato. La fine di queste illusioni è spesso immediata e cocente – quando non in galera e a vita… – distruggendo una esistenza non ancora iniziata ad essere vissuta.
A tal proposito si veda il sito: https://www.altalex.com/documents/altalexpedia/2021/10/26/indegnita-a-succedere
Il denaro, lo “sterco del diavolo” come lo definiva San Francesco, soprattutto se “facile” attira molto di più rispetto al guadagnarsi il pane col sudore della fronte di genesiaca memoria (Gn 3,19: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!”): una prospettiva poco allettante…

Il rovescio della medaglia è, però, che se non guadagnato, porta innanzitutto alla non consapevolezza del valore di quel denaro che in sé – come per tante altre cose – è un mezzo, uno strumento di cui avvalersi per un determinato fine. Sarà poi l’uso corretto o improprio a trasformarlo rispettivamente in bene o in male.
Ma cosa scatena, in particolare nel giovane di oggi, questa “ossessione” della ricchezza, dell’avere tanti soldi anche al di sopra delle oggettive necessità di vita? È spesso la bramosia del possesso, dell’avere e attorniarsi di tutto quello che l’occhio vede e il cuore desidera, cuore che non è mai pago di ciò che brama!

L’avere una ventina di super car nel garage della mega villa con piscina olimpionica? Uno yacht da 50 m? o un jet personale? Certo non tutti possono essere i Ronaldo o gli Ibrahimović o i Messi… ma credo si possa vivere bene anche senza questo livello di super benessere o no?
Il senso del piacere che il possesso di un bene genera, altrettanto spesso, si esaurisce nel momento in cui quella cosa si è ottenuta: ciò accade anche quando quel bene è stato acquistato onestamente con i sacrifici del risparmio economico lecitamente perseguito, con la differenza che in questo caso la soddisfazione di essere riuscito a raggiungere quell’obbiettivo con il proprio impegno è di gran lunga maggiore che non l’ottenimento senza alcuno sforzo.

Quella spasmodica ricerca di accaparramento di ogni bene oggetto del nostro desiderio si traduce nell’attorniarsi di tanti orpelli per cercare di riempire un vuoto interiore, un bisogno di colmare una assenza di valori più profondi, quelli che danno senso alla vita.

Ma perché, il povero che non si può permettere nessuna o ben poche soddisfazioni sarebbe forse più felice? Credo che questo stato positivo dell’animo, ancora una volta, non dipenda da ciò che puoi comprare o meno, ma da ciò che puoi provare dentro di te, fosse anche un apprezzamento, un gesto di solidarietà, di amore!
Un sorriso e una stretta di mano sincera e solidale con una persona in difficoltà, oltre ad un aiuto anche materiale, ci mancherebbe, possono in certe situazioni restituire serenità e gioia non solo a chi si trova in quella necessità e si sente abbandonato a sé stesso, ma anche a chi quel gesto l’ha compiuto dando a quella persona sostegno materiale e supportato morale in quel frangente della sua vita.

Le opere di misericordia spirituali e materiali realizzate darebbero quella felicità che si va cercando in tanti surrogati della opulenta società.
Il ricco, differentemente, che si attornia di amici del suo… portafogli, quando questo si “svuota”, svaniscono anche loro come neve al sole lasciando ulteriormente “svuotati” ed infelici quei ricchi che pensavano di poter comprare con i loro soldi anche questo sentimento: l’amicizia autentica, quella stessa che è stata manifestata al “povero” di cui sopra, gratuitamente!
Come per l’amore: con i soldi puoi comprare una prestazione sessuale, non l’amore…
Dunque ricchi = infelici? Non dico questo, ma l’ambire a questo status economico immeritatamente e/o “fortunatamente” può trasformarsi in una illusione dagli esiti imprevedibili se non saputo gestire da valori spirituali che affondano le radici nel cuore sano e ben formato dell’uomo.
Da aggiungere che il ricco o l’arricchito (figura che forse meglio rappresenta quanto qui descritto) sono anche in una condizione di preoccupazione circa il timore di perdere ciò che hanno e/o oggetto di mire poco auspicabili in termini di sicurezza personale: rapimenti a scopo estorsivo hanno caratterizzato un lungo arco temporale della nostra storia, ma anche rapine ai loro danni fanno, di frequente, notizia nei nostri telegiornali: l’ultimo, in ordine di tempo, quello ai danni di Gianluigi Donnarumma in Francia.
Ma la ricchezza ambita non dovrebbe dare serenità e sicurezza alla vita delle persone? Dovrebbe, ma così non è… e nel caso di una mancata salute fisica, a poco servono. Pensiamo, per un attimo, al grande e più volte campione del mondo di F1 Michael Schumacher: da più di dieci anni in coma e grazie alla sua grande disponibilità economica ha potuto essere curato e seguito, sino ad oggi, con tutte le cure e le costosissime attrezzature del caso al suo domicilio, ma ciò nonostante questo non è stato sufficiente, purtroppo e sino ad ora, a restituirgli la sua vita di prima.
Con grande rammarico e sofferenza, umanamente, di tutti…
Perdonatemi se ho riportato questo esempio dolorosissimo, ma era per far capire il concetto. Qualcuno potrebbe obiettare che quando una situazione analoga dovesse accadere ad un “povero” sicuramente non si potrebbe permettere analoghe cure. Certamente, ma in ogni caso non mi sembra che il risultato finale sarebbe differente o preferibile…
Lascio questo esempio perché apre un tema assai delicato circa il fine vita e non è questo l’articolo che intende prendersene carico.
CONCLUSIONE
Non so quanto sia stato capace di trasmettere la mia personale convinzione sulla “disequazione” ricchezza non è uguale a felicità, ma lasciando ad ognuno di voi poter esprimere la vostra opinione – alla quale sarò lieto poter rispondere personalmente – vorrei concludere con un “aneddoto” attribuito al famoso giornalista Enzo Biagi.
In una intervista gli domandarono se preferisse essere ricco, ma malato o povero, ma sano. Lui, con molta serenità e spiccato senso dell’humor, rispose:
“Non saprei, ma una cosa la so: non vorrei essere povero e malato…”
Credo una risposta umanamente sensata, quasi scontata, ma che non cambia il quadro sin qui descritto.
Buona riflessione, dunque!
Con affetto, vostro Antonio
2 risposte
Grazie Antonio per averci fatto partecipi di queste tue considerazioni, perfettamente strutturate nell’ambito della logica e con una scrittura davvero impeccabile. Sei capace di scavare nei meandri dell’animo umano e sollecitare pensieri che normalmente non affiorano perché siamo troppo presi ad affrontare gli aspetti pratici della vita. I momenti di riflessione non dovrebbero mai mancare invece.
Caro Norberto, ti ringrazio per l’apprezzamento.
Probabilmente la mia condizione di “pensionato” mi concede maggiore tempo per poter riflettere su queste ed altre tematiche e la mia passione per la scrittura mi aiuta a tradurle in articoli. Complici la frettolosità, i ritmi e lo stress con cui si vive oggi nella cosiddetta “vita attiva”, risulta spesso difficile ritagliarsi dei momenti di riflessione: le preoccupazioni quotidiane tendono a saturare gli spazi dedicabili a noi stessi, non solo alle esigenze materiali, ma anche a quelle dello spirito. Aspetti valoriali che caratterizzano, nel bene o nel male, la nostra esistenza, sono condizionati dal tran tran quotidiano, portandoci a rimanere alla superficie dei problemi stessi, problemi pratici – come dici giustamente – che dobbiamo affrontare in questa società per non venirne sopraffatti ma che, al tempo stesso, rischiano di svuotarci, di prosciugare quella carica interiore vera forza per affrontarli in modo vincente. Questa, forse, la vera ricchezza che potrebbe portarci a raggiungere la “chimera” della felicità esistenziale su questa terra.