“Non dire parolacce!”… “Glielo dico a tuo padre che hai detto questa parolaccia!”… “Vatti a confessare dopo che hai detto queste parolacce!” e potremmo continuare con queste frasi che, sinceramente, appartengono più al passato che non a esortazioni e/o correzioni dei nostri tempi.
Purtroppo…
Così da Wikipedia: “La parolaccia (dispregiativo del termine parola) o turpiloquio è un termine o espressione volgare, triviale, offensiva”.
La parolaccia, perché perdere tempo a parlare di questo argomento?
Perché la diffusione di questo modo di comunicare, ormai pervasivo anche dei mass media, ci pone di fronte ad una realtà in cui i valori sino a ieri proposti come modello educativo e formativo delle nuove generazioni, sembrano decaduti, o meglio, decadere di giorno in giorno.
E ciò in nome di un vantato progresso, di una presunta emancipazione, di una liberazione dai vecchi modelli “bacchettoni”, ecc. ecc.: qui “demagogia docet”! Ma con tanti problemi che abbiamo, dobbiamo preoccuparci se scappa una “parolaccia”?
Allora, facciamo un po’ di ordine e procediamo per gradi
Di per sé l’uso delle “parolacce” è sempre esistito, spesso come imprecazione, ma quello che va analizzato è il suo uso improprio, o meglio, quell’abuso spesso impiegato in alternativa a termini equivalenti e più corretti.
C’è, talvolta, anche un impoverimento del gergo comune, del dizionario individuale, del “parco parole” disponibile. Soprattutto nei giovani dove l’uso della parolaccia è quasi un intercalare regolare in un, chiamiamolo, dialogo.
Che tra adolescenti ci si mandi a quel paese con le ben note forme espressive, è noto, spesso accompagnato da una inequivocabile gestualità.
Ma quando questo livello di comunicazione si abbassa per età – parlo di bambini – o si eleva agli adulti, beh allora significa che o siamo in presenza di un precocismo (bambini/adolescenti) o ad una regressione (adulti/adolescenti).
Amenochè non venga usata, quella specifica parolaccia, con la piena avvertenza e per un consapevole effetto, cioè conoscendone il significato e con l’intenzione di offendere l’altra persona, per reazione, per insultare (anche a ragion veduta…), per rabbia, ecc.
Cos’è la parolaccia
Di certo la “parolaccia” dovrebbe essere quasi un atto verbale estremo quando una delle parti in discussione assume un atteggiamento provocatorio, volutamente di sfida, di mancanza di rispetto dell’altro, anche con una comunicazione non verbale, di una chiusura totale ed indisponente e via di questo passo. Un atto estremo, prima di passare a “vie di fatto”, perché spessissimo, dopo gli insulti, si arriva alle mani, ai… coltelli o, Dio ce ne scampi, alle pistolettate!
Ripeto, questi termini scurrili non dovrebbero essere mai utilizzati tra persone civili e ben educate, ma qui tocchiamo una nota “dolens”, molto “dolens”! “Persone civili e ben educate”: sì, ma da chi? Da genitori che hanno delegato l’educazione agli insegnanti delle scuole, dall’asilo nido alle superiori? O alla parrocchia e all’oratorio (dove esistente e funzionante…)?
Ambienti dove gli addetti ai lavori (leggi insegnanti ed educatori, sacerdoti e catechisti…) non hanno la facoltà di riprendere un comportamento scorretto pena il ritrovarsi qualche genitore pronto a difendere il proprio “pargoletto”, ingiustamente accusato di tutto il male di questo mondo, anche col rischio di prendersi qualche ceffone (i fatti di cronaca ce ne riportano esempi concreti di insegnanti percossi da genitori, e mandati al pronto soccorso, che definire delinquenti – come i figli – è spesso usare un eufemismo!).
Che almeno delegassero e stessero al loro posto! Non sanno educare i propri figli, o per ignoranza o per temperamento o per “mode progressiste”, ma poi pretendono di insegnare agli educatori l’educazione e come si impartisce!!!
Paradossale, no? Ma di legislatori “buonisti” che vietano un sonoro ceffone al proprio figlio quando dovuto, da parte di un genitore, sembra demagogicamente pieno il “Foro”: magistrati talmente impegnati a tutelare i giovani da maltrattamenti casalinghi (giustissimo!), rischiano di creare più danni che benefici, arrivando a condannare un genitore che si è limitato a dare uno scappellotto al figlio.
Esagero?
Bene, se non mi credete, vi riporto un estratto, tratto dal quotidiano “La Stampa” del 31 agosto 2011, di quanto accaduto ad un nostro connazionale a Stoccolma.
State a sentire:
<<Doveva essere un viaggio di piacere nel mitico Nord e invece la vacanza della famiglia pugliese Colasante si è trasformata in un incubo con il padre Giovanni in carcere e il pericolo di una condanna affidata all’interpretazione dei fatti di un giudice svedese. Tutto per colpa di uno scappellotto che non si sa nemmeno se sia stato veramente affibbiato in un momento di collera, in una nazione dove le percosse ai minori sono assolutamente vietate per legge sin dal 1966 e le trasgressioni sono punite severamente, talvolta addirittura con pene detentive. Ma vediamo come si sono svolti i fatti. Secondo l’accusa, Giovanni Colasante, consigliere comunale di Canosa di Puglia, avrebbe colpito, il 23 agosto, con uno scappellotto il figlio dodicenne che faceva i capricci, rifiutandosi di entrare in un ristorante di Stoccolma, attirando l’attenzione e la riprovazione di altri clienti che hanno poi chiamato la polizia. Il Colasante si è visto circondare, ammanettare e accompagnare in gendarmeria e, invece di partire con la sua comitiva per una crociera tra i fiordi ha trascorso tre giorni e due notti nel carcere di Stoccolma>>.
La parolaccia, è solo un’esagerazione?
Ora, aldilà che si tratti della Svezia o di altro Paese definito civile (tutto mondo è paese…) mi sembra che si stia rasentando l’assurdo.
Non so come sia andato a finire il fatto giudiziario in sé, ma ciò che mi interessa far rilevare è che se poi ci troviamo ragazzi che su un treno della metropolitana occupano il posto riservato ad un invalido e si rifiutano di alzarsi mandando a quel paese (non intendo la Svezia…) il povero disabile, spesso con una fila di improperi, o altri che ti urtano camminando per strada e manco ti chiedono scusa e, se mai qualcuno glielo facesse notare, sentirsi apostrofare con un fiorito gergo di parolacce sarebbe ritenuto normale, beh allora mi sembra che gli abitanti della jungla possano essere assunti come docenti universitari di “bon ton”!
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Perché la parolaccia colpisce?
Tornando alla “parolaccia”, la gravità non sta tanto nel significato intrinseco che porta in sé e con sé, anche, ma, ripeto, nella persona (per età e ruolo sociale ricoperto), nella circostanza (situazione privata o pubblica), nel luogo (anche qui, pubblico o privato, sacro o “profano”), nella motivazione per cui viene profferita, ecc.
Detto in sintesi: se un bambino di dieci anni pronunziasse un (e qui consentitemi l’uso del termine, altrimenti non riesco ad esprimere il concetto) “vaffanculo” indirizzato ad un adulto, su un mezzo pubblico, in presenza di altre persone, in risposta al gentile invito rivoltogli dall’adulto stesso di spostarsi per poter scendere dal mezzo alla fermata richiesta, va da sé che lascerebbe sgomenti (forse un tempo…) sia la persona oggetto di quell’insulto (la cui istintiva reazione sarebbe quella di appioppargli un “educativo” ceffone sulla bocca… giudici e codice penale permettendo…) che le altre persone lì presenti.
Se quello stesso epiteto fosse stato rivolto da un adulto ad un altro adulto che, nella stessa situazione, stesse soccorrendo una persona anziana che si fosse sentita male su un autobus e involontariamente impedisse la discesa alla fermata richiesta, a fronte dell’insistenza del passeggero di voler comunque scendere lì… beh, avrebbe forse una valenza differente e troverebbe solidarietà tra gli altri passeggeri che giustificherebbero quell’espressione verbale “volgare”.
Credo di essermi spiegato, ma gli esempi si potrebbero moltiplicare, a favore e/o contro la “parolaccia”, in misura numericamente ampia.
L’importante non è analizzare i singoli casi, ma comprendere il concetto.
Il rispetto per le persone
Partendo dal presupposto che se ci fosse più rispetto tra le persone, probabilmente le parolacce sarebbero solo un ricordo della propria gioventù, lascia veramente basiti, non tanto scandalizzati, quanto proprio sbalorditi che, in televisione, magari fuori dalle cosiddette “fasce orarie protette”, fior di personaggi (l’On. Sgarbi, per antonomasia) usi un forbito turpiloquio per sostenere le proprie tesi, ovvero, per contestare le altrui a lui avverse.
Vorrei precisare che non ho citato l’On. Sgarbi perché di una corrente politica, piuttosto che di un’altra e perché possa avere un mio orientamento politico opposto, ecc. ma perché, purtroppo, il personaggio così è…
E non sto parlando di un soggetto “stupido” o “ignorante”, tutt’altro! Persona preparata e colta, di notevole intelligenza, scade in TV su questo modo di esprimersi. Forse richiestogli dalle varie reti televisive, RAI compresa, per fare audience?
Ma se dobbiamo ricorrere a questi mezzucci, lasciatemelo dire, abbiamo toccato il fondo di qualcosa che oltretutto paghiamo come servizio di Stato. Però, sempre più spesso le parolacce vengono “sdoganate” sulla stampa e in televisione ed utilizzate anche da direttori di testate…
Ripeto: non si tratta di “perbenismo” o di essere “reazionari”, ma poi non lamentiamoci se i ragazzi crescono col concetto: “Ma se le parolacce le dicono in TV, e non solo nei film…, anche politici e persone importanti, allora è lecito se le diciamo anche noi!”. Mi sembra non faccia una grinza…
Una grinza, no, una ferita sì! Ferita in quel tessuto sociale che sta perdendo pezzi ed identità culturale, soppiantata da un imbarbarimento di cui il linguaggio è un’espressione, la punta evidente di un iceberg nascosto ma sempre più minaccioso.
Dalla parolaccia semplice (“stupido”…) ai “figlio di p….” con tutta la sequela di cui la creatività nazionale è ricca e che sembrerebbe essere entrata nell’uso corrente a tutti i livelli, talvolta anche nelle omelie ascoltate in chiesa (in questo caso, se almeno servissero a scuotere le coscienze…) benché in casi limiti o per eventi di una drammaticità tali da scatenare ed esacerbare la sensibilità dell’essere umano (vedi stragi terroristiche, di mafia, ecc.) in cui l’umana e giustificata rabbia rivolta contro gli autori e i mandanti di questi omicidi supera l’autocontrollo anche di un sacerdote che è sì un consacrato, ma che sotto l’abito talare, rimane pur sempre un uomo con le proprie sensibilità.
La deriva del turpiloquio
Guardate un po’ dove ci ha portato questa “benedetta” parolaccia!
E allora, “parolaccia” sì o “parolaccia” no? Mi verrebbe da rispondere, alla romana: “Ma quando ce vo’ ce vo’!”. E’ vero, ammettiamolo, a volte te le tirano fuori, come reazione o sfogo, quando proprio non ne puoi più e con una “parola-ccia” sintetizzi tre quarti d’ora di ragionamenti fatti ad una persona (magari detti, ridetti e ripetuti per l’ennesima volta) del tipo: “Non capisci un cazzo!”, con gran beneficio per il tuo sistema nervoso e relativo fegato…
E qui potremmo scrivere un libro, una enciclopedia, di quante persone potrebbero essere apostrofate e “sintetizzate” con questa espressione… Ognuno ha le sue esperienze, ma se Albert Einstein (a lui sembrerebbe attribuita questa frase) diceva: “Un uomo intelligente risolve i problemi. Un uomo saggio li evita. Un uomo stupido li crea… e se il modo è pieno di problemi, un motivo ci deve pur essere.” mi sembra che sia una grande verità indipendentemente da chi l’abbia realmente affermata: ha tutto il mio plauso!
Mi tornano alla mente alcuni giudizi scritti sulle pagelle degli anni della mia età scolare e quelli che ho avuto occasione di leggere di recente dove, in una confidenza di una mia amica insegnante, mi diceva che non poteva esprimere ciò che realmente pensava circa le capacità di apprendimento o il livello di oggettiva difficoltà di comprensione di un allievo ma, in un gioco di demagogica dialettica, doveva esprimersi più o meno così:
“L’allievo presenta difficoltà di ambientamento nella nuova realtà scolastica motivo per cui la sua capacità di apprendimento risulta compromessa dalle circostanze, indipendenti dalla sua partecipazione alle lezioni e dal livello cognitivo potenzialmente dimostrato…” .
Tradotto:
“Non capisce un cazzo e non ha voglia di fare un beneamato cazzo di niente!”.
Ecco come, con due parole, si tradurrebbe in termini concreti la valutazione dello “studente”. Si aggiungerebbe nel giudizio, inoltre e ben volentieri, al genitore:
“Cari genitori, o vostro figlio lo monitorate e verificate che si metta di impegno a studiare le materie impartite e a svolgere i compiti assegnati o è meglio che lo mandiate a zappare, se ne avrà capacità e voglia di farlo: sarebbe un guadagno per tutti perchè il suo comportamento, strafottente e maleducato, compromette il buon esito delle lezioni e il loro normale svolgimento a danno degli altri studenti!”.
Capite che ciò non è possibile, come si faceva in quella contestatissima scuola del nozionismo che il Movimento Studentesco, e chi era alle sue spalle, spazzò via nel ’68 con i ben noti risultati sotto gli occhi di tutti. Immaginiamoci, poi, come su riportato, se dovesse l’insegnante correggere comportamenti maleducati frutto di una educazione inesistente a livello familiare…
Credo che nessuno si scandalizzi per una parolaccia detta in un determinato contesto e circostanza, ripeto, ma che non diventi il nuovo gergo parlato e scritto, col rischio di sdoganare il turpiloquio come linguaggio dominante di una società che scadrebbe nel peggiore degrado.
Quando è concesso usare la parolaccia
Mi permetto di sollevare una deroga a quanto sin qui scritto: “autorizzo” l’uso della parolaccia nelle barzellette. Infatti, in alcune di queste, senza quel termine osé, difficilmente la battuta avrebbe la sua efficacia. Lasciatevelo dire da un barzellettiere non di professione, ma che della barzelletta si è avvalso nella propria professione di venditore. Mai, però, e in nessun caso, ammetto la bestemmia, degenerazione nella degenerazione della “parolaccia”!
Di questo tema, circa l’uso della “bestemmia”, anch’esso drammaticamente diffuso, ne ho parlato in una riflessione dedicata.
Mi verrebbe spontanea una battuta: e che ca… spita, ma proprio tutte le vai a cercare? Forse varrebbe la pena soffermarsi sulle nostre abitudini, sulle nostre azioni, sul nostro modo di relazionarci col prossimo perché da una parola detta male, degenerando, nascono i litigi, le risse, le bande, le faide… le guerre!
Esagero? Mah, può darsi, ma non credo poi così tanto… o no?
Con affetto, Antonio