Antonio Palmiero

Rapporto con la Morte: “Incontro” o “Scontro”?

Rapporto con la morte incontro o scontro_AntonioPalmiero

Allegria!!! Giù di morale??? Tranquilli, il 2 novembre 2022 è passato e sono rimasto indenne… tutto bene, quindi.

Ma la morte ci spaventa così tanto e a tutti? Dipende.

In che senso?

Provate a domandare ad un malato terminale, per esempio dopo anni di combattimento con un cancro e relative terapie farmacologiche (leggi chemioterapie) e/o radioterapie o altro ancora, con tutti gli inevitabili effetti collaterali derivanti, con lo star male un giorno sì e l’altro pure… se vedono la morte come il peggiore dei mali o, al contrario, non la sentono più come “sorella” morte di francescana memoria, con questo senza attuarla (suicidio) o domandarla (eutanasia).

Ma senza voler saltare alle conclusioni, analizziamo cosa significhi per un essere umano questa realtà ineluttabile e come si può pensare ad essa durante la vita, vedendola più come un inevitabile incontro, per quanto procrastinabile il più possibile, piuttosto che non uno “scontro”.

Giornata pesante? Crisi esistenziale?

No, ripeto, tutto bene, ma ritengo anche che un uomo non possa esimersi di pensare a quel momento di distacco dalla realtà esistenziale. Certo non sarà motivo di riflessione di un giovane nel pieno della sua crescita con la voglia di “spaccare il mondo”, con gli ormoni che vanno a mille e la fantasia che galoppa in tutte le direzioni con tanti sogni da realizzare… almeno così dovrebbe essere.

Perché uso il condizionale? Invidioso che gli anni son trascorsi e di quell’età ne è rimasto un lontano ricordo?

No, credetemi, non ho mai sviluppato, ringraziando il Cielo e l’educazione ricevuta, questo sentimento negativo – l’invidia – né tanto meno l’ho mai sentito in me salvo, forse, qualche infantile rammarico per non essere riuscito a raggiungere un obiettivo affettivo (il conquistare il cuore di quella ragazzina…) o professionale (il “posto” ambito “soffiatoti” da un altro…), ma il tutto si esauriva nel tempo di un pensiero, di una riflessione, appunto.

Sì, perché molti giovani, oggi, vivono la frustrazione dei propri desideri in una società che non li aiuta, non li aspetta, nel senso e nella pretesa del far loro bruciare le tappe per essere subito pronti ad affrontare problemi più grandi di loro, della loro età ed esperienza di vita e, conseguentemente, di bruciarli e spremerli come limoni per poi… gettarli perchè “esauriti”, manco avessero una data di scadenza!

Per questo dico che non invidio i giovani di oggi, benchè la loro freschezza e, in generale, la loro salute sono sempre una ricchezza non indifferente, soprattutto per chi queste due caratteristiche, per l’inesorabile trascorrere degli anni, le vede sfumare fisiologicamente, quando non patologicamente, come il fumo tra le dita che passa inarrestabile.

Una nota di nostalgia ci sta, sì: qui concordo con voi in quanto il fermarsi a ricordare quando si era giovani e ciò che si fece all’epoca, le avventure vissute, i successi o gli insuccessi in amore, rappresentano uno spaccato comunque piacevole da rammentare, non fosse altro per la spensieratezza di quei momenti. Ed è giusto che a quell’età non si stia di certo a pensare alla morte, ci mancherebbe!

Imprevedibilità della vita

Ma è nel prosieguo degli anni, quando magari per un evento traumatico, un incidente stradale nel quale un amico ha perso la propria vita, una malattia improvvisa ha tolto la vita ad un compagno di classe o si è rischiato in prima persona di perderla magari a causa di un evento naturale (un terremoto, una tromba d’aria, l’esondazione di un fiume, un ponte che crolla sotto la sua spinta e che coinvolga il nostro automezzo, una slavina in montagna o, come accaduto al noto imprenditore Alberto Balocco, 56 anni, titolare e amministratore delegato dell’omonima azienda dolciaria per un fulmine in montagna, ecc.) ecco che, scampato il pericolo, una riflessione sorge spontanea: bastano pochi secondi o addirittura una frazione di questi e… arrivederci!

Ciò deve far pensare alla caducità della nostra esistenza, a come tanti progetti, tanti desideri possano svanire in un attimo.

Oh, non voglio fare la cassandra, ma la realtà è questa: ogni giorno, milioni di persone lasciano questa terra e, facciamo pure tutti gli scongiuri possibili ed immaginabili, prima o poi saremo annoverati anche noi tra questi in… partenza.

Quindi?

Nulla, continuiamo a vivere come stiamo facendo o, meglio, cercando di correggere quelle abitudini sbagliate sia dal punto di vista salutistico – per il corpo – che morale – per l’anima.

Ma il morire è sempre peggiore del vivere?

Accennavo in esordio che non sempre la morte è peggiore della vita.

Mi spiego meglio.

Una vita di stenti, nella quale devi combattere tutti i giorni per riuscire a sopravvivere (pensiamo a chi vive in determinate zone dell’Africa sub-sahariana soggette alle violenze del Daesh – l’Isis in Africa – o a tutte quelle guerre locali o in tutti quei paesi in cui non c’è libertà – vedi ad es. l’Afghanistan e l’Iran di oggi, ecc.), dove non hai accesso all’acqua potabile, ad un cibo che sia degno di questo nome, dove se ti ammali non puoi curarti, ecc., mi domando: è vita? Forse che nelle favelas del Brasile si viva bene?

Che poi uno si adatti e cerchi di sopravvivere, ripeto, là dove ha la “sfortuna” di nascere è un altro paio di maniche, ma che sia felice è altra cosa. Ognuno, poi, cerca di ritagliarsi come meglio può un angolo di serenità… Questi esempi li riporto in forma estrema, ma non per questo irreale o frutto di fantasia, quanto piuttosto per far comprendere che non esiste, nascendo, la certezza di una vita serena e gioiosa.

Questa serenità va conquistata ogni giorno e saputa conservare ma non egoisticamente bensì condividendola: differentemente non è scritto da nessuna parte che tu debba essere felice nell’abbondanza ed io no, nella massima indigenza e viceversa.

Da qui lo scatenarsi di guerre, da quelle tribali a quelle internazionali e mondiali (Dio non voglia… ma già una terza guerra mondiale “a pezzi” – si contano circa una sessantina di conflitti nel mondo in diverse aree geografiche, anche se non vengono riportate quotidianamente nei telegiornali – si sta disputando e venti di guerra nucleare – vedi le minacce della Russia… – sono sempre meno remoti) con le conseguenze di affamare ulteriormente gli Stati e le popolazioni che già soffrono ed arricchire quegli/lle già benestanti.

Ma allora la vita ha ragione di essere vissuta a fronte di così tante violenze, sofferenze, ingiustizie, ecc.?

Sì, la vita val sempre la pena di essere vissuta, ma tutti abbiamo il dovere materiale e morale di sovvenire alle necessità del nostro prossimo, quello a noi più vicino, altrimenti all’ulteriore scadere della qualità di questa vita (e non parlo del vivere dissoluto, tra aperitivi a tutte le ore e notti in discoteca…) si alimenta il desiderio di porvi fine nel più breve tempo possibile per smettere di soffrire.

A tal proposito penso agli Hospice, luogo in cui i malati terminali vengono assistiti per lenire le loro sofferenze di fine vita (si parla di terapia del dolore…), ma non certo per praticare l’eutanasia. L’essere umano mal tollera il dolore fisico, sia acuto che cronico e nemmeno quello psicologico, ma cerca nei piaceri della vita la propria terrena realizzazione.  Lecito, ma non bisogna dimenticare che al termine della nostra esistenza, “l’uomo con la falce”, che tutto miete, è lì ad attenderci.

“Incontro” o “Scontro” con la morte?

Dicevo all’inizio, di prepararci più ad un incontro che ad uno scontro. Credo che la persona saggia, consapevole di questo umano retaggio, non possa esimersi dal pensarlo. Ma cosa significa “prepararsi” a quell’incontro? Semplicemente che, pur apparendo paradossale, occorre vivere in funzione della dipartita (così fa meno paura che nominare la parola fatidica…).

Noi, se ancora non fosse chiaro, siamo provvisori su questa terra e il nostro quotidiano affannarci, come se vivessimo in eterno, lascia qualche perplessità sulla capacità raziocinante dell’“Homo sapiens sapiens” dove di sapienza, mi sembra ne dimostri poca. Che poi, per gli anni che ci è concesso vivere, li si voglia vivere al meglio delle nostre possibilità, nessuno ne fa una colpa, anzi, sempre che non sia a discapito del nostro prossimo perché gli effetti negativi, poi, ricadono anche sugli stessi autori di questo modus operandi.

I mutamenti climatici conseguenti anche al nostro stile di vita, soprattutto dei paesi più ricchi, sta ormai mostrando i limiti di questa strategia esistenziale edonistica ed egoistica: ci stiamo autodistruggendo alla velocità della luce… e continuiamo a farlo, soprattutto in quelle aree dalle quali dipenderà la nostra sopravvivenza (vedi il disboscamento dissennato della foresta amazzonica, per es.) con comportamenti suicidi (ad es. l’inquinamento delle falde acquifere).

Praticamente stiamo distruggendo gli elementi naturali fonti essenziali di vita: aria e acqua! Come si usa dire: “Stiamo segando il ramo dell’albero su cui siamo seduti”.

Come prepararci, quindi?

E allora in che modo dovremmo prepararci, nel tempo, a quell’appuntamento? Ognuno dovrebbe trovare il proprio in funzione delle proprie convinzioni riguardo l’esistenza della vita oltre la vita. Esiste o no? Ci credo alla sua esistenza oppure la nego a priori e, terminata questa vita, tutto è concluso?

Questo penso sia il dilemma da dover risolvere, la domanda cardine a cui voler/dover rispondere. Oh, c’è anche la possibilità di procrastinare domanda e risposta a data da stabilirsi… Peccato che quando si giungerà, inevitabilmente, a quel punto, a quel momento, sempre che non sopraggiunga improvviso, allora un dubbio amletico ci dovrà pur balenare per la testa e, parafrasando Shakespeare, direi: “Esserci o non esserci, questo è il dilemma”? Cioè, ci saremo ancora nell’aldilà in forma e sostanza differente da quella attuale o saremo dissolti nel nulla? “Polvere alla polvere”?

Nel primo caso, la vita ci obbliga a comportarci in un certo modo anche perché a questa conferma di fede si associa il concetto del Giudizio finale, nel bene o nel male; nel secondo, l’interrogativo cade sul senso del vivere, sull’utilità dell’esistere su questa terra, “in questa valle di lacrime” come ci ricorda la Salve Regina: “Salve, Regina, Madre di misericordia; vita, dolcezza e speranza nostra, salve. A Te ricorriamo, noi esuli figli di Eva; a Te sospiriamo, gementi e piangenti in questa valle di lacrime…”.

Nascere, crescere, studiare, lavorare, godere (poco…), soffrire (spesso e… malvolentieri), ammalarsi (prima o poi…) e morire: a qual pro? Per finire sotto due metri di terra e arrivederci ai suonatori? Mi sembra una prospettiva talmente squallida che non ne vedrei il vantaggio e se così fosse cosa varrebbe agire per il bene comune, per il bene del prossimo? Al massimo potrei agire per il mio di bene, a questo punto lecitamente, forte del pensiero che “chi muore giace e chi vive si dà pace”.

Ma allora se mai avessimo avuto la “sfortuna” di nascere in questa prospettiva di corsa verso il nulla, perché mettere al mondo altre creature destinate a questa fine? Se questa tesi prendesse il sopravvento (cosa che probabilmente sta accadendo se pensiamo alla denatalità dei nostri tempi, almeno in Italia) in tutti i popoli esistenti, avremmo posto le condizioni per la scomparsa del genere umano, aldilà dell’obiettivo perseguito da coloro i quali coltivano una cultura della morte (preferibilmente degli altri) a partire dai favorevoli all’aborto come metodo di “regolamentazione e/o selezione delle nascite” (quest’ultima praticata per decenni in Cina con la filosofia del figlio unico, maschio) per arrivare all’eutanasia e “all’eutanasia allargata” ipotizzabile/applicabile a tutti coloro che, magari, nascono “diversamente abili”.

Dunque?

Qualche riga più sopra, dicevo che il rapporto con la morte non deve essere di terrore, di “scontro”, ma di “incontro”, sebbene l’espressione “andare incontro alla morte” viene citata in riferimento ad un condannato alla pena capitale, o ad un santo sottoposto ad un martirio o al Signore stesso nel racconto della Sua Passione.

Quindi non certo in un contesto rassicurante, almeno dal punto di vista fisico e della relativa sofferenza, ma l’incontro al quale mi riferivo, è quella preparazione interiore che, nella calma della riflessione, meditando i valori in cui crediamo, nel tempo, man mano che raggiungiamo la maturità intellettiva ed esperienziale (vedi ad esempio la partecipazione ad un lutto di qualche parente e/o conoscente), questa ci deve portare a comprendere quale dovrà essere il nostro rapporto con quel momento ultimo della nostra esistenza.

Ignorarlo è come guidare un’auto senza sapere dove stiamo andando e non considerare che il carburante nel serbatoio non è inesauribile… Dall’altro, nemmeno il pensare a quella circostanza in modo ossessivo ci farebbe condurre bene quel mezzo, probabilmente usato rabboccando ad ogni chilometro il serbatoio per garantirsi una autonomia di vita… illimitata (pia illusione e vana aspettativa e, sempre per restare in questa metafora,  il serbatoio potrebbe essere sempre pieno, ma l’autista morire ugualmente, segno di una vita non vissuta).

La vita oltre la vita?

Come sempre nel mezzo sta la virtù e quindi riflettiamo su questa realtà con la serenità di chi, per chi crede, ha la certezza che dopo il “primo” incontro con la morte, ce ne sarà un secondo col Padre eterno, Giusto Giudice. Ciò che dovremmo temere, piuttosto, non è la “prima” morte, quella del corpo, ma la “seconda”, quella dell’anima nel caso di una condanna inappellabile all’inferno.

In Apoc. 20, 12-15 si legge: 12 E vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono. I libri furono aperti, e fu aperto anche un altro libro, che è il libro della vita; e i morti furono giudicati dalle cose scritte nei libri, secondo le loro opere. 13 Il mare restituì i morti che erano in esso; la morte e l’Ades restituirono i loro morti; ed essi furono giudicati, ciascuno secondo le sue opere. 14 Poi la morte e l’Ades furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la morte seconda, cioè lo stagno di fuoco. 15 E se qualcuno non fu trovato scritto nel libro della vita, fu gettato nello stagno di fuoco”.

Come sempre il linguaggio apocalittico è foriero di ansia e come sentenza di un giudizio finale ci pone nel timore/terrore di venir condannati per i nostri comportamenti difformi dalla volontà del Signore Dio. Di certo val la pena meditare un po’ sul nostro modo di agire in questa vita e correggerci ma non per paura del castigo ma perché è giusto comportarsi bene ed amare il nostro prossimo.

Riporto una frase tratta da un libro di preghiera e su Facebook a firma di Don Luigi Epicoco che recita così: Se per paura dell’inferno fai una vita da santo, allora non hai capito che il bene andava fatto per amore e non per paura. Allora capite come si ribalta il nostro modo di relazionarci con le persone e come si giunga a quel fatidico momento senza l’ansia di interrogarsi quali peccati più o meno gravi abbiamo commesso (che è anche corretto pensarlo per una confessione sacramentale e spirituale piena): un siffatto esame di coscienza più che essere liberatorio, diventa un processo a priori dal quale, senza la misericordia di Dio, nessuno risulterebbe “innocente” e nessuno si salverebbe.

Chi molto ha vissuto, molto ha peccato, ma se ci siamo anche “sporcati le mani” per aiutare una persona bisognosa di aiuto, lasciamo al Signore giudicarci, Lui che sa leggere nel profondo del nostro cuore, tra le cicatrici che questa vita ci ha prodotto e che, quale effetto collaterale, ci porta a non essere esenti da colpa, ma anche desiderosi di riscatto, di rivalsa sul male: quelle cicatrici qualcuno ce le avrà pur prodotte… fatto salvo quelle generateci da soli.

Comprendete quindi come, sul letto di morte, dove la malattia e la sofferenza che la accompagna sono palpabili, possa emergere anche la paura umana del terminare di esistere su questa terra, di lasciare momentaneamente (per chi crede nella risurrezione della carne…) i nostri cari e le persone che abbiamo amato oltre alla grande sofferenza spirituale associata, ma sarà presente pure quella serenità di avere la coscienza a posto, senza la pretesa di essere perfetti, certi che il Signore saprà accoglierci nel Suo amore infinito consapevole, a Sua volta, delle tante tribolazioni a cui quell’anima, in vita, è stata sottoposta.

E chi non ci crede?

E per chi non crede nell’aldilà come luogo, status spirituale dell’essere, come affronterà il momento del distacco? Non ho mai visto morire un non credente, una persona “cattiva”, un delinquente… ma credo che, se cosciente, mentalmente lucido, potrebbe essere sopraffatto da tanti sentimenti contrapposti e dilanianti la sua psiche: rabbia, consapevolezza di essere arrivato alla fine della propria esistenza con tanti debiti (quelli che nel Padre nostro si recitano: “…Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori…”), il dover lasciare tutto qui, quell’accumulato che gli avrebbe dovuto garantire una vita agiata e una “garanzia” contro la morte, quell’“assicurazione sulla vita” senza data di scadenza…

Mi auguro solo, per costoro, che l’infinita misericordia di Dio possa, in extremis, toccare il loro cuore e far sì che possano volgere lo sguardo verso di Lui e chiedergli perdono, misericordia. A Lui, poi, il leggere in quell’invocazione di salvezza gli estremi per… salvarli.

Ripeto e concludo, non è che l’incontro con la morte, tralasciando le esperienze mistiche dei Santi, da parte del credente sia scevro dalle umane paure legate anche a quelle che definisco le “modalità tecniche del trapasso”, cioè come avverrà il decesso, in modo violento, doloroso, protratto, ecc., ma la speranza e la prospettiva di poter godere di una vita successiva, eterna, in un luogo – il Paradiso – dove non ci sia altro che Amore e dove regni la felicità eterna, beh credo sia un obiettivo da perseguire con tutte le nostre forze, cadute e rialzate comprese.

E per i “candidati” all’inferno? L’augurio di ravvedersi prima dell’ultimo fatal respiro!

Con affetto, Antonio

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